L’ultimo giorno d’estate

2011 agosto 31
di Sophieboop

C’è ancora il caldo, quello che doveva passare. E non è passata neanche la data dell’equinozio. Ma per me l’ultimo giorno d’estate è oggi, che è arrivata la prima leggera folata di malinconia. O nostalgia, forse.

Di quelle estati che erano così lunghe perché non c’era solo un prima e un dopo, ma anche un “durante” in cui perdersi, perdendo il senso del tempo, vagando da una giornata all’altra, da un posto a un altro di villeggiatura, vivendo solo quel presente che sembrava l’unica realtà possibile. Fatta di qualche lettura scolastica, di molto tempo speso nei bar a parlare di niente aggrappati a una cannuccia, di dubbi esposti alle amiche come fossero oracoli, di chissà se gli piaccio, di quei primi tremiti che elettrificano il corpo, sciogliendolo tra le cosce sode e i tormenti dell’adolescenza. Poi sono arrivate le notti d’amore, gli incontri, i nascondigli. L’eccitazione, la febbre di voler afferrare, mangiare, strappare gli istanti alla memoria, per mantenerli più vivi.

Non ho che ricordi imprecisi, sfumati, da cercare tra pochi scatti nitidi. La fine della scuola, quando ormai non c’era più nulla da imparare e le aule erano cattività, il conto alla rovescia sui fogli del diario, l’urlo finale e la sveglia che al mattino non suona più. Poi la fine, a scegliere il meno scarabocchiato dei libri usati. Nel mezzo c’era tutto, dimenticandosi del resto. Perlustrazioni di luoghi, di corpi, del proprio piccolo essere; pomeriggi giocando a pallavolo, senza preoccuparsi di ottenere un’abbronzatura “rapida e intensa”, perché il tempo per stare al sole non mancava. E ora è l’unica cosa che mi manca.

L’aria.

Tra queste mura, pareti, palazzi, che mi sembrano sempre troppo stretti, angusti.

Quest’estate non c’è stato neanche il solito tormentone, o almeno io non me ne sono accorta. Ci sono il vento e l’odore selvatico della natura, il violino che una musicista in vacanza suonava tra gli eucalipti del campeggio. I bagni nuda nel mare, persone con cui chiacchierare giorni, per ricordarsi poi di dire il proprio nome, la pelle che si scurisce, il sorriso e gli occhi che sembrano più bianchi, l’amore, che non è mai abbastanza. Ma non sono riuscita a dimenticare la fine, non sono riuscita a pensare di non dover tornare, non c’è stata la dolcezza dell’oblio. C’era sempre una tensione nervosa, troppo adulta, troppo viziata, in sottofondo, a volte quasi impercettibile, ma presente. Neanche partire, mi è sembrato poi così vero. Solo il ritorno, con la concretezza consumata delle sue abitudini. Nel mezzo – sempre nel mezzo – emozioni, sensazioni vive, respiri profondi. Gemiti acuti, anche a far fruscire le foglie. Ma non erano – non sono – ancora abbastanza, abbastanza qui, abbastanza dentro. Sottopelle, ma non nelle viscere.

Di cosa potrei essere accusata, se volessi ancora quelle estati? Quelle estati tutto l’anno? Perché mai le stagioni dovrebbero impedirmi di godere?

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