In questi giorni è tutto un trans-trans.
La cosa che mi dispiace è che si parli dei transessuali come se non fossero esseri umani ma mutanti, senza rispetto. E invece lo meritano, eccome. Se non altro per la sofferenza che affronta una persona nata in un corpo che non sente suo e in una società che non accetta e nasconde, piccola e ipocrita, le diversità. Se non altro per il coraggio che ci vuole a scolpire nella carne la propria vera natura, e lasciare che semplicemente emerga.
Ma non voglio fare dibattito. Voglio fare una domanda.
Operarsi completamente, significa rinunciare all’orgasmo?
Me lo chiedo da tempo.
Cosa ne sia dei nervi dopo il passaggio del bisturi. Se semplicemente muoiano e trasmutino in fibre, o guizzino ancora come molle. Se il cervello goda di più con il giusto corpo al suo servizio, riempito di realtà che coincide con l’immaginazione.
Soprattutto mi chiedo quanto coraggio serva – se così fosse – per rinunciare con un pezzo di carne – in più o meno poco importa – anche alla piccola morte.
Una trasfusione non basterebbe. Bisogna proprio essere speciali.
Gli esseri umani hanno il brutto difetto di dimenticare.
“Spiacente, ma questa sera siamo al completo” dice la donna alla reception da dietro la sua guardiola trasparente, guardandoci con gli occhi di chi ha visto troppo ma è convinto di non sapere niente.
Ci guardiamo in silenzio per un attimo, forse un po’ troppo lungo. E spero che tu abbia la forza di leggermi nella mente.
“Se volete aspettare finché non si libera una camera, potete parcheggiare nella piazzola e sedervi nella hall.”
La donna dice “dovrebbe liberarsene una verso le 4″ e le mie pupille si stringono stizzite di disappunto.
Io non ho voglia di aspettare. Non posso aspettare. E da come mi guardi, dalla stretta della tua mano sulla mia coscia, neanche tu.
Quando hai voglia di scopare non c’è nulla di più antipatico di trovare il motel con le camere otturate da altri corpi. Non c’è nulla di più spiacevole, soprattutto se la macchina davanti alla tua ha appena passato la sbarra che porta alle suites, e a comunicare l’ingrata notizia è una vecchia zitella arcigna che rosica come una cagna sfiancata dalla fame nel vedere tanto amore che le passa davanti agli occhi, sfrecciando veloce come le strisciate delle carta di credito.
“Bene. E adesso dove andiamo?”
“Ci dovrebbe essere un altro motel da queste parti. Ma è un tre stelle.”
“Va beh, ce l’avranno un letto, no?”
Ingrani la retro, e ci allontaniamo sulla strada lucida e viscida, illuminata solo dalle insegne della zona industriale. Capannoni vuoti. Silenzi prefabbricati.
Fa freddo, piove, e io sono tutta bagnata da prima. Sopra, sotto, e in mezzo. Voglio solo un letto in una camera riscaldata per fare l’amore con te.
“Dai fermati”
“Sei sicura?”
“Sì”
La freccia ticchetta meccanica, poi tace e ci troviamo davanti a una costruzione grezza e a una sbarra. La guardiola è piena solo i luci al neon e mobili rivestiti di formica grigia. Tutto molto cheap. Ma lo sappiamo. Questa sarà la nostra avventura low cost. La nostra notte alla Bonnie & Clyde in fuga dalla tachicardia infrasettimanale.
Non si vede nessuno, solo un principio di villaggio dell’amore. 3 stelle inferiore, con gli intonaci scrostati e le siepi calve. Aspettiamo ma ancora non si vede nessuno. Dopo un colpo di clacson emerge un signore sulla 60ina, i capelli bianchi e lo sguardo spento. So già che farà il tirchio. Gli diciamo che ci fermiamo per la notte. Per la modica cifra di 80 euro, da pagare subito, prego. E ribadisce con aria scocciata che le stanze “devono essere liberate entro e non oltre le ore 12″.
Il simpaticone fa cadere nella tua mano un blocco che sembra una tetta d’ottone, a cui è attaccata la chiave della camera numero 22. Ci dirigiamo verso la nostra camera, una casetta nascosta da cespugli che non hanno un incontro ravvicinato con il giardiniere da diverso tempo.
Aprendo la porta ci accorgiamo che la maniglia è montata al contrario. Entriamo e la stanza si riveste debolmente di una luce triste e umida, squallida.
Squallida come la chiazza umidità che trasuda dal soffitto, come la doccia monoporzione castigata in un angolo del bagno. Una luce troppo corta, come la coperta marrone vecchia e spessa, ruvida di acari, come la superficie graffiata dello specchio, che non riesce a inquadrarti nei tuoi 182 cm. Fredda come il pavimento nudo e senza tappeto, come le lenzuola di cotone con le pieghe della stiratura che risalgono a un momento morto molto tempo fa. Una luce squallida, corta e fredda per noi due che ci baciamo in piedi, stringendoci nel passaggio davanti al letto, con la ventola della stufetta fa le fusa, come un gatto morente che canta la sua sinfonia di malinconie e topi mai catturati.
E pensare che dovevamo trovarci in un lussuoso motel a 4 stelle, con vasca idromassaggio doppia, letto king size, broccati e velluti, riscaldamento, marmi, luci soffuse. Ma è nel grigio che i colori risaltano di più.
Ti guardo nei tuoi occhi che mi guardano e capisco che non mi importa davvero di niente, di niente di tutto quello che abbiamo attorno, del mondo che c’è fuori e brulica più degli acari della nostra coperta. La butto sul pavimento, che ora avrà un tappetino, e mi lascio cadere sul letto, trascinandoti con me. E ci mettiamo a ridere. Sì, ridiamo a crepapelle e anche la chiazza di umidità sul soffitto ci fa ridere tanto da tagliarci il fiato. Ridiamo della doccia troppo piccola in cui potremmo stringerci meglio, ridiamo della stufetta rotta perché vicini ci riscalderemo di più. Ridiamo anche dello specchio troppo piccolo, che si perderà gran parte dello spettacolo, e ridiamo del pavimento freddo perché per non calpestarlo staremo sempre a letto.
Le tue mani iniziano a frugare sotto la mia maglietta, tirandola su, fin sopra il reggiseno. La tua lingua a esplorare il mio collo mentre le tue mani iniziano a slacciarmi in pantaloni, a sfilarli, lasciandoli a mezze gambe, a sfiorarmi piano piano.
“Dai, mi fai il solletico!”
“Prima godevi quando lo facevo, e adesso ridi? Eh?” e ti butti di nuovo, spietato, sopra di me.
“È che non posso farne a meno, – la tua mano mi sfiora ancora, e io mi contorco negli spasmi della risata – no, dai basta, ti prego!”
Ma tu continui, tormentandomi a piccole dose, ricominciando appena smetto di ridere. “Basta, basta lasciami in pace! Ma non lo sai che il solletico è una tortura?”
“Sarebbe una tortura che ti bloccassi le mani, così” – e la tua mano velocemente mi afferra i polsi bloccandoli dietro la mia schiena.
Di colpo smetto di ridere e la mia bocca smette di contrarsi, allentandosi in un sorriso strano, pervaso da un’illuminazione perversa, stupefatto per il brivido che mi è salito lungo la schiena. Mi mangi la bocca con un bacio, senza mai lasciarmi i polsi. Io la lascio lì, aperta, polposa, con gli occhi chiusi, offrendola ancora alla tua lingua e ai tuoi morsi, al tuo cazzo che ora se ne sta eretto, davanti a me, come un idolo da venerare. E inizio a baciare la tua cappella, succhiandola come un frutto maturo, sussurrando piccoli morsi, fino a prenderlo tutto, abbracciandolo con la lingua devota.
Sempre tenendomi per i polsi, mi costringi dolcemente a girarmi e sorreggermi solo sulle ginocchia puntate sul materasso molle, offrendo anche il culo al culto del tuo piacere. Il mio respiro diventa più corto, incitato continuamente dal mormorare dell’eccitazione e dalla scomodità comandata della posizione. Mi lasci le mani per permettermi di sorreggermi meglio e mi dici di stare ferma. E io ubbidisco, perché ti ubbidisco sempre. Con le mani divarichi le mie natiche, fino a intravedere il fondo plug che mi hai fatto mettere prima di uscire. È un piccolo bulbo d’acciaio freddo, decorato con una gemma rosa alla base. E quella gemma viziosa e opulenta che ammicca dal mio culo stona così tanto in quell’ambiente privo di ogni lusso che lo togli, quasi strappandomelo di dosso, come un saggio indignato di fronte a una ricchezza inutile. Guardi estatico il mio vuoto dilatato e affamato dall’improvvisa privazione e poi ti sento venire più vicino a me, più addosso al mio dono nudo e sento il caldo del tuo cazzo duro che si posa in mezzo all’altare della mia carne, che si sfrega, che inizia a godere.
Con una mano inizi a toccarmi il clitoride gonfio di eccitazione, facendomi mugolare una litania di gemiti e contrazioni estatiche. Mi dici di continuare, mentre ti il metti il preservativo. E io continuo a masturbarmi con il fervore ipnotico di chi si vuole guadagnare un miracolo e la benevolenza del suo dio.
Quando torni mi afferri per i fianchi e benedici la parte più nascosta di me con uno sputo e l’umido delle preghiere raccolte dalla mia mano.
Non c’è bisogno d’altro per far scivolare perfettamente il tuo cazzo dentro di me, seguendo con lenta e solenne voluttà il rituale del piacere che ti fa entrare e uscire da me, che mi fa entrare e uscire dalla realtà e da me stessa, per rivelarmi un godere che non avevo mai provato. Come se il mio culo fosse l’ingresso che porta ala trascendenza.
Come un’infinita corrente che scorre sui miei nervi, nelle mie viscere e mi dà alla testa, come una velocità così folle da farmi sentire il freddo sulla pelle e il fuoco che mi brucia in pancia, come una scossa di infinite illuminazioni orgasmiche che mi spinge a osannare il tuo cazzo dentro di me, cercando tutti i modi per celebrare il nostro amore e propiziare un sesso profano che mi lascia vuota di certezze e piena di vita, che urla rinata a ogni colpo, sempre più violento. Mi allontano bruscamente e ti faccio stendere sul letto, montandoti da sopra, posseduta dalla fame sfrenata che ho di te.
Lo voglio, lo voglio dentro di me, lo voglio sentire fino all’anima, lo voglio prendere sempre di più per riuscire ad afferrare la profondità nuda di questa sconvolgente visone carnale, che mi trascina in un’orgia di orgasmi non appena sento esplodere il tuo dentro di me. Deliro, tremo, urlo con gli occhi al cielo e la schiena inarcata nello spasmo, e la mia carne morde e sbraita e viene senza controllo, posseduta e liberata dal piacere.
Mi accascio sopra di te e ti bacio, stremata.
Dentro di noi, dentro la nostra stanza, si è appena concluso un talk show di organi genitali e gemiti sguaiati, liberi dai pudori della società, liberi dall’educazione della cultura, c’è un gesticolare sconnesso e furioso e un ballo di movimenti assetati di vita come pesci fuori d’acqua. Una scopata senza fronzoli e senza rimpianti che arraffa tutto quello che può con le sue mani ruvide di fatica, sporche di istinti, forti d’amore.
Fuori dalla nostra stanza, lì, nella realtà del corridoio del motel, inizia talk show popolare su taglie calibrate e detersivi tra le cameriere.
E noi ci addormentiamo tranquilli, perché non ci manca niente.
Ovvero: quando il culo te la canta
Meno male che aveva il preservativo! E comunque, anche lei ha un po’ ragione…
tnks to Benedetto
per mettere le dighe ai pensieri
e colmare il vuoto tra le nostre labbra
istantanee
lente
elettriche
che si rincorrono dense
e lampi di lingue
che si abbracciano e scompaiono
luminose
come un piccolo furto di buio
che frantuma gli orologi
in un’orgia di ingranaggi spezzati
e muti
mentre ci riempiamo la bocca
con l’orgasmo liquido
del nostro amore
Solo ora capisco il senso della pubblicità Mentadent per l’igiene orale.
Campagna per comodo.it
Siamo a letto, dopo aver fatto l’amore, ancora con le gambe e le mani intrecciate, a fumarci una sigaretta. Fa un po’ caldo tra le tue braccia e, in una delle mie divagazioni post orgasmiche, mi chiedo se esista un’assicurazione sulla felicità per blindare tutto questo. Perché ti amo, perché so che sei quello giusto ma non lo posso sapere, perché a volte ho un po’ paura: del tempo, della vita, degli imprevisti. Perché voglio essere felice con te per tutta la vita, ma c’è quel margine di incertezza esistenziale che a volte mi terrorizza.
Immagino di avere davanti a me un damerino impomatato dal sorriso marchiato Mattel che mi assicura che andrà tutto bene. “Anzi benissimo, signorina, e non si preoccupi se qualcosa dovesse andar storto, perché nulla potrà andar storto, lei è assicurata”. Assicurata. Con tanto di contratto in duplice copia controfirmato da ambo le parti.
L’agente assicurativo mi spiega che “la polizza copre: serenità domestica, frizzante e intensa vita sessuale, eccitazione, divertimento, crescita personale, coccole e tenerezze delle domenica mattina, esorcismo anti-corna per entrambi e innamoramento sempiterno”. “Perfetto”, mi dico. E lui continua, dicendo che “il premio sarà erogato in denaro“. Lo sapevo che c’era la fregatura, i soliti avvoltoi: “Denaro? Lei vorrebbe assicurarmi la felicità con del denaro?!? Io voglio solo una pacca sulla spalla!“. Ma lui va avanti: “e… l’unico motivo per cui potrebbero non pagare il premio, è che lei, la felicità, non l’abbia voluta.”
Lo guardo con l’odio impotente e furioso che si riserva agli sciocchi, prendo il contratto che mi porge con la mano e lo straccio in tanti piccoli chicchi di riso cartacei da lanciarci in testa per celebrare la nostra felicità.
Fatta giorno per giorno. Forse rischiosa. Sicuramente meravigliosa.
La pacca sulla spalla me la do da sola, ti prendo la mano e ti dico: “andiamo?“
Il pensiero che più mi eccita, mentre apri la porta, è che domani sentirai il mio odore. Che ti ricorderai di come mi hai scopata sulla scrivania mentre ti siedi di fronte al computer.
Le ombre sono invertebrate, le luci si accendono rincorrendosi livide e tu mi prendi per mano, trascinandomi giù dai gradini che portano al tuo ufficio con tanta forza da farmi quasi sbattere contro uno scaffale. Se si aprisse, qui volerebbero fogli lenti e le penne rotolerebbero sul pavimento abbracciate al loro inchiostro mentre il resto della cancelleria rimarrebbe a guardare. Ma tu mi riprendi per mano e mi attiri contro di te, facendomi sentire il tuo respiro veloce correre sulla faccia. Conosco quello sguardo. E’ lo sguardo che hai quando non c’è più spazio per il pensieri ma solo per il sangue che ti scorre dentro e ti eccita il cazzo, che sento premere contro di me da sotto i tuoi pantaloni.
Non hai voglia di perdere tempo adesso, vuoi solo finire il lavoro che hai iniziato con me.
Mi prendi i fianchi, sollevandomi la maglietta, e affondi nel caldo della mia pelle con tutte e due le mani, baciandomi per poi allontanarti a guardarmi e riprendermi di nuovo, quando la tua lingua scende sul mio collo e la gonna si contrae risalendo sulle mie gambe. E mentre i denti si confondono con le labbra, le tue dita afferrano strette i miei capelli. E ora devo pagare con la mia resa l’impazienza che mi ha fatta arrivare qui dopo l’orario d’ufficio, a trattenerti per un lavoro straordinario.
Non sono nient’altro che una pratica da sbrigare per avere un premio in produttività.
Mi giri fronte-retro, facendomi appoggiare con le mani e poi schiacciandomi il busto sulla tua scrivania, facendomi piegare finché non sono costretta ad aprire le gambe il respiro non inizia a balbettare. Nell’attesa della tua prossima mossa, nei pochi secondi in cui pensi a come ottimizzare il profitto e analizzi il calore di ogni centimetro del mio corpo. Nella tensione metallica di sapere che qualcuno potrebbe vederci e che tutta questa stanza sarà testimone della nostra scopata. In questo momento, io sento la mia carne dilatarsi in un urlo muto per dirti quanto ti voglio.
E tu vieni a nutrire la mia fame con le tue dita che frugano cieche sotto le mie mutandine sottili e corrono e strizzano la mia carne umida mentre altre dita mi tirano di nuovo i capelli, mordono il mio culo e di nuovo la mia fica con piccoli schiaffi, prima di infilarsi dentro di me, tutte e tre, insieme. Quelle tre dita che mi allargano e mentre mi riempiono mi fanno sentire sempre più vuota, che ne voglio ancora, che voglio il tuo cazzo fuori dal tuo completo grigio e dentro di me e per non farmi urlare le infili nella mia bocca, facendomi succhiare il mio sapore caldo. E io non posso fare a meno di morderle per mettermi a tacere mentre mi abbassi gli slip fradici fino alle ginocchia e affondi dentro me, arrivandomi dritto nel cervello, rendendomi folle, costringendomi a chiudere gli occhi, a sentire i miei seni che si strabuzzano increduli nella tua stretta e la mia fica che si racchiude gelosa attorno al tuo cazzo.
E mi fotti, mi fotti in mezzo ai tuoi colleghi assenti sulle poltrone vuote, mi fotti di fronte all’appendiabiti spoglio, mi fotti in una stampa incontrollata di piacere sulla mia carne, di labbra che si mordono, di gole che gemono, di corpi che godono, di scale di grigio e colori che si mischiano, che s’impastano e si confondono l’uno con l’altro e schizzano, confusi in un orgasmo più lungo e bagnato del solito, anche quello, straordinario.
La stoffa liscia della tua cravatta mi lecca la schiena, mentre ti sfili da me e sistemi la camicia nei pantaloni. Hai finito quello che dovevi fare e te ne vai, lasciandomi arruffata ad ansimare e le chiavi per chiudere l’ufficio.
Te le ridarò quando ci rivedremo a casa, mi serve giusto il tempo di sistemarmi.
E il pensiero che più mi eccita, mentre chiudi la porta, è che domani mattina vedrai ancora l’urlo del mio orgasmo, imprigionato nel nero del tuo monitor spento.
Ogni orgasmo umano è in un certo senso come tutti gli altri orgasmi, come alcuni altri orgasmi e come nessun altro orgasmo umano” (Levin, 1992)
Se il punto d’origine dell’orgasmo fosse in mezzo alle gambe sarebbe tutto più facile. I genitali, dopotutto, sono organi piuttosto semplici da maneggiare. Basterebbero un dettagliato libretto d’istruzioni anatomiche e una stimolazione adeguata per godere al massimo, ogni volta, nello stesso modo. Ma non è così perché ogni orgasmo è diverso da un altro, e ogni orgasmo può liberarsi ma anche rimanere lì, imprigionato dai nostri schemi mentali. Anche con tutta l’eccitazione, la stimolazione e la buona volontà del mondo.
Ma questa è solo una mia teoria.
Così, da brava porno-secchiona, un paio di settimane fa ho partecipato a un seminario Aispa dal titolo La forza del piacere dove si parlava appunto di orgasmo femminile e ho potuto migliorare la mia erezione erudizione intellettuale.
Uno dei temi principali è stato proprio cosa possa inibire l’orgasmo in una donna, cosa che succede abbastanza di frequente nonostante l’estetica pornografica ci voglia tutti multiogasmiche mugolanti e le ripetute e convincenti simulazioni di molte donne. Purtroppo, l’anorgasmia o anche solo non venire sempre o solo con il pisello (io lo chiamo “venire senza mani”) è una ferita profonda nella sessualità e nella femminilità di molte donne. Come dire, è un dettaglio abbastanza frustrante.
Tra i fattori che influiscono sulle capacità di una donna non tanto di “raggiungere”, ma di accogliere l’orgasmo, liberando l’energia sessuale invece di metterci sopra un bel tappo, si annoverano: il passato e il presente familiare, sociale, psicologico, corporeo e sessuale; disturbi dell’umore, ansia, depressione, stress, il sentirsi fisicamente inadeguate o la relazione stessa in cui si vive la propria sessualità. Non basta? Anche non sapere abbastanza bene chi siamo o avere fantasie erotiche molto diverse dalla realtà può sfociare nell’anorgasmia perché l’immagine che abbiamo del piacere o dell’orgasmo non coincidono con la realtà e non si possono riconoscere ed esprimere in essa. Insomma, nulla a che fare con quello che abbiamo tra le gambe, ma con quel fottutissimo casino che ci abita tra le orecchie. read more…
Quando avrò finito con te, stanotte, il tuo cazzo sputerà solo aria.