Lo dicevo anch’io, che non ero innamorata. Era un anno fa.
Stavo benissimo così, nella mia condizione di trombamica. Fare sesso solo quando si ha voglia e se non se ne ha voglia dire semplicemente di no, senza rischiare di ferire i sentimenti altrui, e magari andare a fare quattro chiacchiere davanti a una birra. Ridere. Discutere di cose serie. Andare in giro, e poi ritrovarsi lo stesso a scopare, violentemente, appoggiati al cofano della macchina in un piazzale deserto di periferia. Concretizzare fantasie erotiche in una camera di motel. Amare, godere, giocare. Ma senza avere l’impegno, senza avere responsabilità, legami, rischi e avere, insomma la libertà di godersela come e quando si vuole, prendendosi i vantaggi più superficiali di una relazione. Fare sesso, appunto. Sentirsi desiderata, bella, e avere una spalla su cui piangere e una schiena in cui piantare le unghie. Qualcuno a cui raccontarsi, qualcuno da conoscere. Ma senza pretese.
C’è stato un momento però in cui questa storia, questa trombamicizia, ha iniziato a piacermi così tanto che ho capito che non era tanto il modello di relazione a farmi stare bene, a farmi essere felice, ma la persona con cui l’avevo. Nonostante tutte le scuse su cui mi ero arrampicata fino a quel momento. Nonostante tutti i fattori di fallimento razionalmente analizzati.
E poco importava se era lui troppo grande, o troppo diverso da me, o non assolutamente il mio tipo: senza che potessi accorgermene, senza che potessi fare qualsiasi cosa per impedire che accadesse, mi sono trovata a dire felicemente addio alla mia condizione di single/trombamica, e a dirmi perdutamente sua.
La trombamicizia esiste, e funziona, ma racchiude in sè l’inevitabile instabilità di tutte le forme ibride, perennemente in bilico tra l’evolvere e il degenerare.
Lo dicevo anch’io, che non ero innamorata. Era un anno fa. Prima che corressi il più meraviglioso e terrificante rischio della mia vita, per cambiare tutto e accorgermi di essere felice.
C’è anche la pioggia stanotte, a far sembrare tutto ancora un po’ più triste.
E’ mancata per giorni, in cui l’invocavamo per poterci stringere con più gusto. Ha oscurato il cielo, in questa notte dalle due lune. Ha reso inutile il solleticare del lavaggio strade sui marciapiedi.
Il vento fa sbattere una finestra ingenua nella casa di fronte. Fumo una sigaretta cercando nel cielo, ma non c’è niente da vedere tra i lampi. I tetti sono bagnati, ma non di pianto. E’ il godere lento e sottile, il piacere protratto e straziato nel tempo, arrivato finalmente al suo grido. Delirante. Commosso. Sudato. Un orgasmo finito.
Stringo forte la sigaretta tra le labbra che ancora vibrano sull’eco del tuo ultimo bacio.
Fuori, c’è solo l’acqua che trascina a terra polvere secca e rumori. Dentro, l’umidità fa montare il tuo odore, il nostro odore. Ma i tuoi vestiti non sono più qui, e neanche tu. Questo odore, questo odore di sesso e vetri appannati che mi penetra il naso. Il cervello. La carne.
Sono nuda, di fronte allo specchio che mi contiene tutta. Mi accarezzo. Ma non è la stessa cosa. Mi guardo in faccia, in quella faccia pallida e investita dal sonno che mi ritrovo appiccicata al cranio. Neanche quella è la stessa. E gli occhi, gli occhi non li guardo nemmeno perché sono gli stessi che avevi tu, prima di scomparire dietro alle scale.
Vado a dormire nel mio letto di ragazza, lasciando la vestaglietta giapponese accartocciata ai piedi del letto. Non riesco a dormire e il soffitto non è più bianco come una volta.
Penso. Mi tocco un po’ e sento il caldo che mi ingrossa le vene. Dove sei?
Faccio correre le dita tra le gambe. Sono ancora fradicia, appena scopata e pronta da scopare. Ti penso un po’, e lo stomaco mi si impicca dalla nostalgia. Come se fossi partito. Come se non fossi ancora arrivato.
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Mi prendo una (meritata) pausa.
Per aderire all’appello di Diritto alla Rete contro il ddl Alfano che imbavaglia la Internet italiana: Diritto alla rete. Per altre info si veda anche qui.