Scusatemi. Oggi non rispondo ai commenti perchè ho le mestruazioni.
Hai presente quando l’amore ti rende completamente cretino? Ecco.
Quando in mezzo al niente ti viene voglia del suo cazzo, così carnoso e liscio, così meravigliosamente Suo. Voglia di averlo tuo, di essere Sua.
Quando in mezzo al niente ridi e sorridi e tendi a dimenticare anche chi sei in un elettroshock di endorfine nel technicolor della tua adolescenza.
Quando in mezzo al niente giochi a tornare bambino inventando parole, coccole e dispetti per illuderti che la realtà sia solo noi due.
Quando in mezzo al niente ti ecciti al pensiero che tornerai a casa e lo troverai lì, pronto ad essere nudo e a perdersi con te tra pensieri, sospiri, sudore, saliva, orgasmi e lenzuola.
Quando in mezzo al niente dici “Ti amo, Torsolo” con gli occhi sagomati a cuore e ti senti rispondere “Io di più, Polpa”.
Ecco. Quell’amore ti appaga così tanto da far cadere nell’oblio più bianco tutto il resto, persino i problemi, che affondano con le carezze nell’angolo più buio del cuore. Semplicemente perchè basta. Ma è in quel momento, è quando arrivi a quello stadio di rincoglionimento amoroso, che devi decidere se farti internare per un lungo (e forse vitalizio) ricovero nel reparto “dipendenze croniche da una persona o dalle sue sensazioni”, o se farci solo qualche visita occasionale in preda al delirio degli amorosi sensi.
Non che non sia fantastico essere innamorati. Ma anche in un amore così è meraviglioso non possiamo e non dobbiamo perdere noi stessi, non possiamo diluire eternamente l’importanza e il peso della nostra vita con una soluzione concentrata 100% puro amore distillato: perché abbracciare qualcuno non vuol dire non poter più tenere in mano la propria vita. Perché essere felici e innamorati non vuol dire far dipendere la propria felicità esclusivamente da quell’amore. Perché non ci sarà mai un noi, finché non ci saranno due persone indipendenti, mature e sincere.
Come diceva Antoine de Saint-Exupéry, due persone che si amano non si guardano negli occhi, ma guardano insieme nella stessa direzione.
Lo diceva mia mamma che “i soldi per i libri sono sempre ben spesi” e che “non si smette mai di imparare”.
Mi ci voleva la pagina 36 di XXX – Dizionario del sesso insolito per scoprire che la dicitura corretta di quella che io ho sempre chiamato gag-ball in realtà è ballgag. Ne sono felice perché questo mi ha evitato ulteriori figure di merda con gente sessualmente più erudita di me. E dire che pensavo di saperne abbastanza.
Invece, non faccio in tempo a finire di studiare la lettera A ho già ritrovato almeno 4 delle mie perversioni, altrettante perversioni altrui di cui ignoravo l’esistenza e parecchie altre nozioni, la maggior parte delle quali viene indicata con termini a dir poco astrusi – ma perfettamente corretti per la scienza e la linguistica.
Scopro che l’acomoclitismo fa la fortuna di molte estetiste a cui le clienti richiedono una dolorosa ceretta inguinale completa.
Scopro che l’amomaxia comprende tanti divertenti giochetti che ho fatto in macchina.
Scopro che l’amsterdam box è una simpatica scatola di deprivazione sensoriale dotata di stimolanti sportelli.
Questo XXX – Dizionario del sesso insolito di Ayzad è insolito non solo per le voci trattate, ma soprattutto per come è scritto: lontano dagli accademismi delle cattedre frigide, istruendo senza annoiare -anzi, divertendo – e districandosi abilmente tra cose decisamente zozze, decisamente schifose, pericolose, eccitanti, curiosità, brevi biografie, precise e chiare nozioni di sessuologia e storia della sessualità, utili espressioni gergali e preziosi contributi al know-how sessuale.
Insomma, un manuale di perversione e conoscenza, (di noi stessi e del sesso), per apprendere la teoria e passare anche alla pratica di qualche fantasia inesplorata.
Credo che potrei quasi impararlo a memoria per poi farmi mettere sotto esame da chi di dovere. Dopotutto, sono sempre stata un po’ porcona secchiona.
Il mio cassetto delle mutande è un gran casino. Ma riesco sempre a trovare quello che mi serve.
E’ un gran bordello di pizzi e lecci sparsi, di nylon, cotone e altri tessuti promiscui che si contaminano allegramente nel mezzo del cassetto, riversandosi tra gli scomparti che rimangono vuoti. Quegli scomparti erano scatole di scarpe, un tempo. Di quelle di cartone spesso, rivestito di una plastichina traslucida e bianca. C’è – anzi c’era – la scatola del bianco, del nero, della biancheria sportiva, di quella colorata o fantasia e di quella vagamente trasgressiva, per le occasioni speciali, mestruazioni e Capodanno compresi. Ma così, povere e svuotate, sono tutte uguali.
Credo che se non avessi una personale fenomenologia a cui attenermi, ogni mattina rischierei di perdere l’anima nel cercare un paio di mutande adatte al momento. Ci sono persone che semplicemente non portano i tanga perchè gli si infilano un po’ troppo tra le chiappe, o gli slip a vita alta perchè arrivano un po’ troppo sopra l’ombelico. Ci sono persone a cui il pizzo fine provoca orticarie incontrollabili. Io no. Io mi lascio ispirare dallo spirito momento.
Le mie mutande sono quasi tutte diverse – tranne 3 slip brasiliani bianchi con i profili in pizzo nero – e posso arrivare a cambiarle anche 3 volte al giorno. O mettermi a lavarle a mano all’una di notte per indossare lo stesso paio per due giorni di seguito. D’altra parte mutanda vuol dire le cose che devono essere cambiate e io non faccio altro che attenermi all’etimologia latina.
Quando mi sento una signorina d’altri tempi, ben educata ma un po’ sporcacciona sotto la gonna – o quando ho il ciclo e ho bisogno di tenermi al caldo – metto le coulotte nere a vita alta, di quelle sintetiche e fascianti che la nonna si comprerebbe all’Oviesse. Solo che, su di me, fanno un altro effetto.
Se mi sento brutta metto solo mutande brutte. Di quelle un po’ consunte, che non mi dispiace aver sporcato per un giorno qualunque.
Quando sono a casa da sola e non ho voglia di dormire completamente nuda, cerco mutande di cotone con stampe adolescenziali, indispensabili per addormentarmi abbracciata al mio gatto di peluche dopo essermi strafogata di sigarette e yogurt alla vaniglia.
Se mi sento un ragazza di campagna, di quelle che mettono il vestito buono nel giorno di festa, mi lavo con il sapone i marsiglia e metto degli slip avorio semplicissimi, ma di seta.
Quando ho voglia di folleggiare ubriaca di endorfine e bollicine come la giovane amante di un ricco in vacanza voglio qualcosa di esagerato, pomposo e un po’ antiquato. Delle coulotte con balze di pizzo o qualcosa che abbia lacci da slegare per caso con un dito.
Se mi sento un po’ troia da nightclub metto le mutandine polo: due fasce di pizzo rosso fuoco cucite a tanga e con un buco in mezzo. Lui apprezza e la sveltina ringrazia.
Quando sorrido da donna moderna e sicura scelgo un perizoma che esalti anche il sorriso verticale: di quelli sottili, trasparenti e che si bagnano in fretta.
Ma quando mi sento femmina davvero, le mutandine non le metto proprio.
… almeno tu, nell’universo
dimmi che sono la tua troia
e che basto io per avere un harem
dimmi che la mia fica è la tua casa
e il mio culo la soffitta dove ritirarsi nei giorni troppo assolati
dimmi che le mie mani sono le chiavi tintinnanti per la tua carne
e che la mia lingua è l’unica che sa parlare con la tua pelle e vibrare con il tuo midollo
dimmi di inseguire il tuo cazzo fino agli angoli più stretti dell’universo
e prosciuga il mio corpo di tutti i suoi orgasmi
legando corpi e liberando menti
mordendo i miei nervi
chiudendo gli occhi
gridando gemiti
fottendo battiti
cantando cuori
e dimmi
che sono l’unica regina
a cui la tua fantasia s’inchina e chiedimi
di diventare il tuo sogno erotico
per svegliarti gonfio e eccitato nel cuore della notte
e trovare una coperta calda da scopare
chiedimi di diventare la tua meridiana
e segnare tutte le inclinazioni del piacere
chiedimi di toccare il buio
e godere anche dove non batte il sole
chiedimi di spogliarmi della paura
e venire con la bocca piena di sì
chiedimi di arrendermi ribelle alle tue voglie
per essere nuda e tua
perchè io
non chiedo altro che amarti.
Il mio vero timore, in fatto di sesso anale, non è il prima, o il durante. È il dopo.
Lo ammetto, il pensiero che dei residui fecali – dicesi volgarmente cacca – si siano affezionati al suo cazzo mi terrorizza. E qui non si tratta di pulizia personale, ma di semplice fisiologia, perchè ci si può sentire puliti e a posto anche quando, in fondo in fondo, non lo si è.
Mi spaventa anche se si tratta di un plug, o di un dito. Ma il cazzo mi spaventa molto di più, anche se da bravi igienisti usiamo sempre il preservativo quando si tratta di lato B. Più che altro mi dispiacerebbe sporcare parti del suo corpo, specie le più meravigliose e delicate, e dare così una prova concreta – un pochino imbarazzante – del fatto che le donne non defechino saponette e non scoreggino Chanel n°5. D’altra parte, se così fosse, non esisterebbero nè il genere scat nè il suo stuolo di seguaci. Sporcarsi con il sapone sarebbe davvero un paradosso.
Mi sono sempre chiesta che metodo utilizzino le pornostar per essere sempre linde come bambole gonfiabili appena scartate. Probabilmente si fanno un bel clistere, ma nella vita non si può programmare tutto come le riprese di un film e nemmeno si può avere sempre a portata di mano peretta di silicone e camomilla solubile. Certo, il clistere sarebbe l’ideale per garantire una certa pulizia – alcuni lo amano anche come pratica erotica – e dovrebbe dare una certa (ma non totale) sicurezza (bisogna essere sicuri di averla fatta tutta!), ma se si è dei fornicatori insaziabili si rischia la disidratazione e il genocidio dell’intera flora batterica intestinale.
Nel libro Zone umide, invece, la protagonista (che però amava il mushroom-stamp) raccontava di un arnese da avvitare alla cornetta della doccia e infilare nel sedere, per una specie di docciatura svuota-budella. Ma che io sappia un simile arnese non esiste , o, se esistesse, non saprei proprio come procurarmelo.
E noi, donne normali, abituè del letto matrimoniale e delle sveltine accampate, noi, che non disponiamo di assistenti di ri-produzione, nè di clisteri pret-a-porter, nè della fantasia di una scrittrice, come dovremmo fare?
Forse, come in molte altre situazioni, affidarci all’infallibile intuito femminile. Basta che ci sia la voglia e non ci sia il mal di pancia, e ogni paura svanirà a posteriori.
Ogni volta che mi metto a scrivere qualcosa di vagamente erotico mi trovo davanti a questo dubbio, atavico, quasi esistenziale, che mi ingrippa il cervello. Devo scrivere “fica” o “figa“?
Nella stragrande maggioranza dei racconti erotici che ho letto finora (su carta, cioè editati da un editor professionista) ho sempre trovato “fica“. E in effetti, su una pagina, sta meglio leggere “fica”. E’ anche una bella parola, da vedere, da leggere velocemente in preda a quell’eccitazione che confonde le sillabe e non ti permette di leggere davvero, ma solo di intuire quale sia la reale composizione della parola. Scorre, si fa scopare dall’immaginazione e fottere con uno sguardo.
Ma parlando, ad esempio, non mi verrebbe mai naturale dire “fica“. Non credo neanche di averla mai usata, come parola parlata.
Perchè “fica” mi sembra una parola artefatta, lontana, immaginaria, un termine che vorrebbe essere volgare ma non ci riesce fino in fondo semplicemente perchè gli fa schifo e allora, da brava educanda, si ritrae nel guscio della sua “c“, così composta e ordinata. Mi sembra un vocabolo che userebbe solo da chi non vorrebbe mai, mai davvero, sporcarsi la lingua con certe sconcezze, e non è certo il mio caso.
Se provo a pronunciare questa parola frigida, se provo anche solo a iniziare una frase come “si tuffò nella mia fica come un affamato nella cucina di un ristorante” mi sembra che quella “c” mi si incastri tra le corde vocali come un fiocco di carne liofilizzata. Mi sembra di riuscire solo a immaginare un cartoncino ruvido scarabocchiato con una sanguigna stemperata, invece di sentire tra le pieghe delle sillabe l’odore umido di un organo pulsante.
Quindi, in un dialogo soprattutto, mi affretto a scrivere “f-i-g-a“. Ma poi guardo lo schermo e immagino il foglio su cui potrebbe venir stampata e l’occhiello di quella “g” mi sembra assolutamente troppo enorme, troppo desolato e troppo vuoto per indicare una vagina. Quella “g”, sembra il copertone di un camion. Andrebbe bene per la vagina di una vecchia puttana, forse. Ma non per quelle pallide e compatte. Andrebbe bene per spalmare avventure erotiche in faccia alle amiche, in mezzo a un bancone umido di birra e per apprezzamenti da strada.
Quella “g” di “figa” è sporca, è un’incrostazione di sudiciume, inezia e povertà. Se solo provo a scrivere “amo la tua figa” mi prudono gli occhi come se quella parola fosse un divano imbottito di pulci e zecche, tanto che vorrei grattare via quello scarabocchio con la carta vetrata. O Una raspa. Magari le unghie. Quella “g” mi fa tanto schifo che finisco per cancellarla, chiudendo anche gli occhi quando premo quel grosso tasto per debellarla.
Spesso e volentieri, risolvo questo dilemma tra scritto e parlato con il generico pronome “-la“.
Non so perchè, ma con la parola “cazzo“, non ho lo stesso problema.
E poi mi chiedo: perchè il correttore di word segna “si masturbava” in rosso errore-imperdonabile? Che la graffetta Clippy, oltre ad essere rompipalle, sia anche moralista?
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Ecco uno dei (pochi) motivi per cui vale la pena arrivare (vivi) al weekend milanese.
Già dal nome non potevo che innamorarmi dalla serata I love squirting, immaginando refrigeranti schizzi alcoolici e sudori danzerecci. Poi ci sono stata, e ho orgasmato.
La location estiva a ciel sereno mi ha affascinata con la sua calorosa decadenza post-industriale post-cortile milanese, la musica divertente, un po’ elettronica, un po’ indie, un po’ commerciale con una rispolverate alle vecchie glorie del passato – finalmente una serata in cui mettono musica divertente!!! – mi ha fatta ballare fino a bagnare il tubino nero e poi mi sono potuta rilassare chiacchierando con qualche emerito sconosciuto. Già, a Milano esiste ancora una serata dove si possa parlare e conoscere qualcuno, un’attività ormai caduta in disuso in molti locali così detti cul cool, se non si parla delle solite scuse per rimorchiare.
Ma oltre a tutti gli elementi che rendono una serata piacevole – il posto suggestivo, della bella musica e perchè no, anche l’ingresso gratuito – quello che fa la differenza è la gente che popola la serata: gente che vuole far casino, cantare, muovere il culo, chiacchierare e sorridere invece che starsene stiticamente quasi immobile a far finta di divertirsi. Il tutto condito da un clima di goduriosa spensieratezza multicolore, senza limiti di sesso, sessualità, razza, età, religione e dress-code (ok, in realtà ci sarebbe, ma è solo per divertisi di più).
Non vedo l’ora di essere al Toilet club per squirtare anche in salsa invernale.
Qui il gruppo su Facciabuco.
Di una bellezza violenta.
Warning: video ID not specified!Via |Unscathed Corpse
1 euro al minuto. Sembra una piccola cifra, ma in un’ora sono 60 euro, per 4 ore al giorno, 240, per 5 giorni la settimana, fanno 960, per 4 settimane al mese, sono circa 3800 euro. Giorno più giorno meno. Febbraio è di sicuro il mese più magro. Il modo in cui guadagno tutti questi soldi è semplice, intuibile e forse poco rispettabile. Machissenefrega. Almeno, da un computer, non ci si può infettare con virus che disintegrano il tuo sistema immunitario, che coltivano escrescenze o si trasformano in tumori.
Come ti immagini che sia una che si sta facendo una scopata virtuale con te, dall’altro capo della rete?
Porca. Molto porca. E bella. Molto bella
E come sono mentre scrivo
Nuda e…
e…?
Ti stai masturbando?
Forse. E cosa pensi di una che fa il mio mestiere?
Che è una troia
Già. Peccato che la mia fica, quella vera, non la assaggerai mai.
Battere sui tasti è il mio mestiere e io batto, batto sui tasti scopando le lettere, scopando le fantasie degli altri e realizzando le mie con un corpo immaginario. Io mi faccio sbattere dalle sillabe. Io accarezzo con le parole. Io ti succhio con uno spazio vuoto, ti faccio venire a imbiancare la mia pagina, ti faccio venire a cancellare l’inchiostro digitale del mio sudore.
Dimmi che sei la mia troia
Sono la tua troia sono la tua puttana
E adesso dimmi che ti piace il mio cazzo
Adoro il tuo cazzo. Io voglio il tuo cazzo. Lo voglio duro, lo voglio sentire dentro di me
Dai prendimelo in bocca, fino in gola, succhiami il cazzo che poi te lo metto dentro
mmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm
Brava, adesso apri le gambe che ti scopo
Sì, scopami, voglio che mi scopi
Ti piace? Dimmi che ti piace dimmi che ti sto facendo impazzire
Sì.Sìsìsìsìsìsìsìsìsììsìsììsìsì 0000000000000000000000000000000000000000000000000
La mia distanza è l’orgasmo della tua immaginazione. I miei suoni muti sono il tuo desiderio. Io ti faccio venire a imbiancare la mia pagina, ti faccio venire a cancellare l’inchiostro digitale del mio sudore. Ti faccio venire per far viaggiare il mio cuore.
Io ti amo. Perchè non sei nessuno e sei tutto quello che voglio amare.
Te la sto leccando tutta. Lo so che ti piace sentire la mia lingua tra le tue gambe.
Ma non c’è nessuno tra le mie gambe.
Ti scopo ti scopo come una puttana. Guarda come godi mentre ti sfondo mentre te lo metto dentro.
Ma non c’è nessuno dentro di me.
Sto venendo… ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh 000000000000000000000000000
Ma non sento niente. Nessuna sborrata mi scoppia dentro. Nessuno schizzo mi graffia la faccia.
Nessuna carne che io possa sentire. Nessun respiro che io senta vicino.
Nessun bacio. Nessuna carezza.
Niente più di quanto richiesto. Niente di meno.
Dare piacere al primo che mi scrive, è il mio talento. Ma ricevere, godere, è una cosa che so fare con uno solo.