Senza scampo – parte XIII
Un colpo metallico mi sveglia e vedo Destiny davanti a me, vestita con solo con una sottoveste di raso nero e un cappello a falda larga. Le spalline ricadono come briglie sciolte sulla sua schiena sudata che si curva e riemerge sotto il sole del deserto, lanciandosi dietro un piccolo soffio di terra. Vedo il suo mezzobusto che si appoggia a una pala, si asciuga il sudore con un braccio e ricomincia a scavare. Poi lei parla, cercando di combattere con la voce la decina abbondante di metri che si separano, e, come se mi avesse visto aprire gli occhi, come se riuscisse a leggere nella mia mente che in quel momento pensa: “perché diavolo sono qui?”, lei risponde:“ è una domanda retorica.” dice, alzando gli occhiali da sole sopra la testa, guardandomi dai suoi occhi violacei. “Avresti potuto evitare tutto questo, ma sei troppo stupido. Herbert perché mi costringi a farlo?” e il suo viso si contrae in una smorfia di sadico cordoglio che vedo anche dalla mia gogna: “sei solo uno stupido idiota, ecco cosa sei”, e si rimette a scavare.
“lo dici solo perché ti sei fatta fregare, solo perché non ti amo” dico senza pensarci troppo, ancora intontito dal colpo, dal sole, dalla sete. Lei si blocca, di nuovo come quella volta davanti alla roulotte, ma il suo sguardo è diverso, più liquido e più grande di allora, come quello della madre di un omicida, e urla, ancora più forte di allora, lascia cadere la pala e si avventa verso di me, sbracciandosi per ribaltare i cassetti delle mie viscere: “Tu devi amarmi! Hai capito tu devi amarmi, perché se ci siamo incontrati è solo perché era inevitabile che accadesse, perché è il risultato di tutti i se e i ma che sono successi invece di non accadere. Prima lo capisci meglio sarà per te! Tu devi amarmi perché sei tu che mi hai fatta così!”
“Ma io non ti amo! Hai capito? Io non ti amo!!!!”. Le sbraito in faccia queste sillabe felpate con la bocca secca e impastata, protendendomi in avanti tanto che il collare metallico quasi mi taglia la gola. E lei mi molla uno schiaffo che mi sporca di polvere, di male, di tutto il marcio che c’è in lei e in me e che mi fa girare la faccia. Poi, mentre respira forte, mentre la mongolfiera che ha al posto della pancia fa su e giù, mi sputa in faccia la sua sentenza:
“Allora sarà peggio per te! Bastardo testa di cazzo è colpa tua! È colpa tua!” e punta il ditino magro e scheggiato di smalto: “E non avere il coraggio di dire che non te la sei andata a cercare. Io non vorrei, non vorrei, ma sei tu che me lo fai fare! Sei, tu che mi hai fatto fare tutto questo!ma è così! è il risultato di una legge fisica incontestabile e io devo farlo, Dio! Ma perché?! Perché!?”
Poi si avvicina le mani al volto. Toglie e rimette gli occhiali. Ora anche lei è porca di terra, e piange, e trema, e tira su col naso quel poco di sangue freddo nebulizzato che riesce ad inalare attraverso le narici impolverate. Si gira e mi mostra la sua acconciatura sfatta di boccoli rossi e forcine sottili. Io la guardo, ma ancora non ho davvero paura, ancora non ho davvero capito quello che sta per fare. Spero ancora che tutto sia solo uno spettacolo di marionette, di buffoni, una sceneggiata alla “via col vento”.
Destiny va verso la macchina e prende la borsa, poi mi avvicina un barattolo di vernice vuoto con un calcio, facendolo rotolare di fianco a me. Lo raddrizza di nuovo, mettendolo in verticale e sfila una mannaia d’acciaio dalla borsa. Poi china la testa arruffata e dice: “dammi le mani, dammi le mani cazzo!” e lei le prende con uno strattone. Mi torce fino a che non mi ha girato con le mani sul tappo del barattolo, finchè non ha vinto la mia debole e fiacca resistenza. Mi stringe le braccia legate tra le gambe nude e sudate e, tornata la cara sadica Destiny di un tempo, dice: “Vediamo se sai soffrire bene come scappi, vediamo se sai soffrire bene quanto me”. Io la guardo con gli occhi che mi saltano dal cranio, con il cuore che mi sfonda lo sterno e con una voce più acuta del solito dico: “Che cazzo vuoi fare Des? Cazzo Destiny ma tu sei pazza! Sei proprio una fottuta puttana pazza! Vuoi che ti sposi? E va bene ti sposo ma non fare stronzate ok? Cazzo Des ti prego!”
La sento tremare attorno a me tanto che i suoi contorni si sfuocano, la sento gridare al cielo. Poi il movimento del suo braccio, sento la lama che fischia, chiudo gli occhi, e il mio urlo straziato squarcia l’aria di rosso quando i miei due pollici cadono a terra.
“Le mie mani! Le mie mani! Che cazzo hai fatto Des!? che cazzo hai fatto?! Sei una schifosa troia, sei solo una schifosa, patetica, troia. Perché? Perché?”. E per la prima volta nella mia vita inizio davvero a piangere, scosso dai singulti e dal dolore che mi dilania. Quasi sembro lei che piange, quasi sembro lei che soffre e scalcia nell’aria, in questo mio contorcermi atroce tra le catene. Ma questo dolore è più dentro che fuori: è il dolore della mia anima spolpata e io non lo capisco.
“Perché? Perché i pollici Des? perché?”
Destiny risponde, di nuovo impassibile e spietatamente calma: “perché sono ciò che ci distingue dalle bestie, e tu non puoi essere chiamato uomo.”
Poi si allontana, va dietro la macchina e quando torna ha in mano un panno bianco e gocciolante. Dice: “così non morirai dissanguato” e quando lo stringe attorno alle mie mani monche sento la carne che si cuoce e sfrigola nell’alcol e mi sembra di impazzire. Lei mi osserva mentre mi accartoccio su me stesso digrignando i denti e dice: “sarebbe una fine troppo bella per un pezzo di merda come te”.
Senza più vedere niente per le lacrime, il sangue, il dolore, o forse perché mi sembra di svenire le chiedo:
“Quando nascerà?
“Quando lo vorrai”
“E se io non lo volessi?”
“Allora non nascerà mai”
Quando la sua lingua batte quell’ultima sillaba, io perdo i sensi e mi affloscio tra le catene come una pianta appassita, perché ho capito, e anche lei se ne va, accarezzandosi tristemente il ventre, perché ha capito.