senza scampo – parte V
Compongo il numero con le dita che mi tremano, che pigiano con forza, schiacciando i tasti sporchi del telefono pubblico come moscerini su una torta di compleanno. “Pronto?” dico “John posso passare da te per tra un po’?” e lui mi risponde: “certo fratello”, come se sapesse già tutta la storia, come se si aspettasse già questo gran casino: “vedrai che ti nasconderò per bene”. Dico “grazie, John, sono da te tra un’ora al massimo” e riaggancio. Il mio amico John è uno spostato che raccoglie vestiti usati per noleggiarli alle compagnie teatrali a cui li ha rubati. È uno che quando si stanca delle frigidone in carriera, si libera di loro giurando di volerle sposare. Penso che forse avrei dovuto frequentarlo di più in tutti questi anni. Ora è in quella che lui chiama casa, un magazzino polveroso e pieno di naftalina, al lato opposto della periferia di Las Vegas rispetto alla mia roulotte. Vorrei fermarmi ad ansimare appoggiandomi alla cabina come un esule, a chiudere gli occhi collezionando ricordi e calma, ma non ne ho il tempo. So che quella stronza è già sulle mie tracce, pronta a seviziarmi, a tritarmi il cazzo in un frullatore e a berselo con un po’ di latte la mattina prima di andare al lavoro. Potrebbe essere a un isolato di distanza, potrebbe già essere dove sarò tra un’ora. Di sicuro avrà rubato la moto sotto la tettoia, fuori dalla mia roulotte. E allora mi tuffo sul marciapiede e inizio a correre fino alla cadillac di Destiny, che in realtà dista meno di tre metri, mi schianto sulla portiera, salto dentro e prendo le chiavi, che miracolosamente entrano nel quadro al primo colpo. Metto in moto e sgommo partendo, sentendo il mio cuore che fa lo stesso rumore sferrragliante del motore che si stira nel cofano, sentendo il mio respiro che fa lo stesso fischio stridente dei pneumatci sull’asfalto. Le case mi sfrecciano a fianco in una parata di vite comode, di mediocrità, e io le passo veloci, dicendo “no grazie, non fa per me”. Dovrei fregarmene, potrei commettere un piccolo reato ora, in nome della mia salvezza personale, ma l’abitudine mi dice di frenare di colpo al semaforo che si è appena arroventato davanti a me, dicendomi con la voce di Destiny: “Fermati. Non credi sia meglio cercare di continuare a vivere?”. Così mi blocco più per la paura che per dovere civile, e rimango con le dita incollate alla pelle consunta del volante, con il piede che stritola la frizione e le orecchie deformate nello sforzo di ascoltare un respiro proveniente dal sedile posteriore. Non sento i clacson e le bestemmie degli altri automobilisti. Penso “cazzo”, dico “cazzo” lentamente e mi volto, con l’angoscia che mi annacqua le ossa, e mi ribalto a cercare un corpo di donna col ventre infetto e i capelli stopposi. Ma il sedile è vuoto, e sotto il sedile è ancora vuoto e fuori dalla macchina un tizio su una con i baffi da motociclista accosta col suo pick-up, mi urla “coglione” e se ne va. Io penso “fottiti” e poi mi chiedo quand’è stata l’ultima volta che ha controllato il portabagagli. Potrebbe esserci entrata mentre telefonavo, o adesso, mentre ero fermo al rosso. Sgommo di nuovo per fermarmi cinque metri più avanti, nel vialetto della solita bifamiliare perbene. Scendo dall’auto e un coro di voci nere ulula insulti che svaniscono nell’aria assieme alle macchine che si allontanano, mentre mi avvicino cautamente al portabagagli. Mi fermo un attimo col pollice sul pulsante, respirando forte e veloce, sobbalzando come una molla carica d’ansia. Premo la serratura, il portellone si apre con uno scatto ammortizzato, e io giro la testa di lato per non guardare, con i capelli sudati che mi penzolano sulla guancia schiaffeggiata dalla paura. La mia pupilla osa arrivare all’angolo esterno dell’occhio, quel tanto che basta per riuscire a scorgere la sagoma di stondata di Destiny, per cogliere un movimento, un respiro. Ma tutto è buio e vuoto. Ci sono solo una bottiglia d’acqua e una tanica vuota. Non c’è Destiny che salta fuori con in mano lo stick maledetto del test, protesa in avanti come un crocefisso. Non c’è nemmeno Destiny che si sfila affaticata e stropicciata, e mi dice piangendo di non andarmene, di rimanere con lei per sempre. “Per sempre” è questo che mi terrorizza: la formula di una vita stanca, di una vita monotona, che ti intrappola senza scampo nella sua scala di grigi. Sarebbe bello se riuscissi a calmarmi davanti all’evidenza, ma continuo ad essere nervoso per tutto il viaggio, continuando a sobbalzare sui sedili imbottiti della caddillac ogni volta che sento il motore di una vecchia moto avvicinarsi e addirittura quando sono quasi arrivato a casa di John, sto per mettere sotto una nonnina solo perché ha i capelli bianchi tinti di rosso, che sembrano i capelli castano ossigenato di Destiny tinti di rosso.